Ville de Nice

Blu – Il mio 14 luglio

Non si esce vivi da un attentato terroristico senza riportare escoriazioni.

C’è chi ne è morto, chi ha subito traumi e amputazioni enormi sia fisiche che psicologiche, chi ha visto letteralmente strappatogli dalle mani l’amore, un figlio, un amico, l’intera famiglia, un pezzo di carne, un pezzo di cuore.
C’è chi ha visto il terrore negli occhi di chi stava morendo accanto a lui senza poter fare niente.
C’è chi è stato colpito di striscio da una pallottola e chi si è fatto male scappando.
Poi c’è chi, come me, non si è fatto niente, ha visto l’orrore passargli accanto e ora sta bene. Niente perdite, niente ferite, niente.
Ma non si esce da un attentato terroristico senza riportare escoriazioni, ora lo so.

E adesso devo raccontarlo il mio 14 luglio, per cercare di metterci un cerotto su quella sbucciatura, su quelle botte che qui si chiamano “bleus” come il colore degli ematomi e quello della malinconia.
Come il colore del mare della Côte e come l’unico della bandiera francese che differisce dal nostro tricolore italico.

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E’ strano di quella sera si sono fissati nella mia memoria tutti gli istanti antecedenti alla strage. Tutti.
Tutto quello che hanno registrato i miei occhi prima è lì, vividissimo nella mia memoria, fotografato in decine di istantanee a colori. Chissà perché, forse è una versione soft della famosa “vita che ti passa davanti tutta in un istante” un attimo prima di morire.
Il passato che vuole fissarsi per un’ultima volta sulla retina e tra i neuroni, una specie di cortocircuito elettrico delle sinapsi che fanno di tutto per bloccare il tempo del “prima”, dal momento che del “dopo” svanisce improvvisamente ogni certezza.

Dunque di quella sera ricordo tutto con impressionante chiarezza. Marco che rientra tardi, ceniamo in fretta ma no, non ho molta voglia di uscire, sono molto stanca, mi metto sul divano lui mi dice vabbè se vuoi non usciamo, ma io lo so che tra mezz’ora quando sentirò i botti mi incazzerò per non essere scesa a vedere lo spettacolo.

Andiamo. Prendi una felpa che c’è vento. E’ buio, ho l’impressione che sia più buio del solito. Eppure non sono ancora le dieci e il cielo è ancora blu. A metà luglio è ancora blu il cielo a quest’ora.

C’è un sacco di gente, ho l’impressione che ci sia ancora più gente del solito, lo dico a Marco che concorda. Un fiume di gente che si muove tutta nella stessa direzione, sembrano ombre tutte uguali (click).
E’ buio è molto più buio del solito nonostante le luci siano tutte accese e il cielo sia ancora blu.

Passiamo dall’incrocio con Boulevard Gambetta. Fotografo con gli occhi la pattuglia della polizia municipale che devia il traffico lì dove le sei carreggiate della Promenade des Anglais diventano interamente pedonali. E’ un’utilitaria bianca con la striscia blu (click)

Non ho paura, non ci penso più agli attentati. Dopo il 13 novembre sì, tutti avevano paura e io sentivo che Nizza era un bersaglio troppo goloso per chi avesse voluto seminare morte. Natale, Carnevale, Europei: tanta, troppa gente tutta assembrata nello stesso posto, ma quella sera no, non ci si pensava più. Nemmeno io.

Il fiume di gente si muove verso il punto dove di lì a pochi minuti verranno sparati i fuochi d’artificio sul mare.
Al Palais della Méditerranée, è proprio lì che scendiamo sulla spiaggia, per appostarci il più possibile vicino al mare, in modo da fare le mie assurde foto di rito.
Assurde: “ma lascia stare, sono tutti uguali i fuochi” dice Marco.
Sì, sono tutti uguali, anche i gatti sono tutti uguali, anche gli uomini lo sono. Tutti, o quasi.
La spiaggia ne è piena, è buio e le loro silhouette sembrano davvero tutte uguali. La foto qui la faccio davvero (click).

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Le luci sono ancora tutte accese e sul palco dietro di me suonano. E’ blu.

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Sono infastidita, vorrei mettermi più avanti ma Marco me lo sconsiglia, memore della volta in cui un’onda anomala ha quasi messo ko la mia vecchia reflex.
Appena mi siedo un papà col bambino si piazza proprio davanti a me, incurante, lui, delle onde anomale. Sono infastidita e avanzo, è da quando siamo usciti che sono irritata e bisticcio un po’ col Marco. Sono molto stanca e ho male all’anca.

Avanzo e mi metto a fianco del papà col bambino. Sono proprio di fronte alle chiatte. Farò le mie foto, tutte uguali alle altre, poco interessanti, perché le belle foto dei fuochi sono quelle prese da lontano con il cavalletto, gli iso bassi e con un tempo abbastanza lungo da creare quelle belle scie filanti.
Ma la scelta non si pone tra fare belle foto e vedere lo spettacolo.

Credo sia per quello che io non le faccio quasi mai le belle foto meditate e il mio scattare è ancora quel rimedio contro il tempo che il mio cuore domanda sempre.
Farò le mie foto, alzando gli iso e correggendo gli stop al volo, che l’esposizione giusta con i fuochi è questione di culo. Stavolta voglio prendere anche un video del finale.

Sono infastidita, ma quando iniziano i giochi di luce sul mare automaticamente sorrido beata. Oooh la bandiera di Francia!
I fuochi blu sono i più rari, un po’ come le rose.

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Mezz’ora. Cosa faceva l’attentatore in quella mezz’ora? avrà guardato anche lui il cielo come le decine di migliaia di occhi puntati lassù? Forse sì, questione di tempistica.

Il mio di tempo ora accelera, saliamo sulla strada, c’è il primo palco della Prom’ party, suonano, non sento neanche cosa, c’è troppo vento, i rumori volano via. C’è troppa gente, sono infastidita, davanti al palco c’è troppa gente, non faccio le mie foto di rito, mi allontano, abbandono il marciapiede, esco sulla carreggiata. Marco è sempre dietro a me.
Strano, quasi sempre ci perdiamo in occasioni del genere, io presa a fare foto e lui interessato ad altro, ai suoi video instagram per esempio e poi ci tocca chiamarci al cellulare per ritrovarci nella folla. 
Non questa volta, lui è vicino a me.

Andiamo avanti a vedere gli altri palchi? ho male all’anca, Marco ha freddo, alla fine non l’ha presa la felpa, io sì ce l’ho sulle spalle, ma ho male all’anca. Fa troppo freddo per un giovedì di metà luglio. C’è un vento fortissimo, torniamo dai.

C’è Serge, due parole due. Buona serata. Siamo in mezzo alla carreggiata, c’è tanta gente in mezzo alla carreggiata, c’è gente dappertutto. Sono tutti uguali.

Di colpo prendo Marco per il braccio e gli dico “vieni, passiamo di qua”. L’istantanea che fissa il mio piede nello scarponcino che ha camminato per tutta New York, lo fissa mentre attraversa la grande aiola terrosa che da poco e fino a quel punto delimita la carreggiata dal marciapiede pedonale, quella in cui hanno piantato le nuove palme e che finisce pochi metri più avanti “macchecc… ma proprio qui dovevo attraversare?” (click)

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Pochi passi ancora verso il mare e poi le urla, la folla in fuga. Lo so, è un attentato, non ci pensavo più ma lo capisco subito. Forse tra un po’ morirò. Gli occhi del Marco che mi parlano (click)

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Giù! sulla spiaggia! Blu, il mare non è più blu, è nero e per un istante penso che sia l’unica via di scampo, poi torno in me e dico no, qui sotto al muro della scala, se sparano sulla gente dall’alto qui sotto avremo più possibilità di salvarci.
Mi faccio piccola una signora vicino a me in piedi e incredibilmente compassata mi dice del camion che schiacciava le persone. Ricordo di averla vista quella assurda macchia bianca mentre scappavamo. Una ragazza si butta dall’alto sulle nostre teste e dice “pardon”, nei suoi occhi un enorme punto di domanda. Io non ce l’ho la risposta.
Sento degli spari, sembrano lontani ma è il vento che li porta via, perché vedo il fumo sopra la mia testa, lì sopra, sulla strada. Penso che forse a minuti mi troverò di fronte un mitra che mi traforerà le budella, o un kamikaze con una cintura esplosiva, la gente scappa in tutte le direzioni, ma dove andare se non sai dov’è il pericolo?
“La tua preziosissima macchina” non so dove l’avevo lasciata, ma l’ha presa Marco, non ho più la felpa sulle spalle “vuoi che andiamo a cercarla?” non so più dove andare, le parole nascono senza un senso e muoiono senza risposta.
La gente sciama ovunque e noi pure verso il mare, poi lungo la spiaggia, poi di nuovo su per la scala sulla carreggiata.
Ci sono tanti corpi a terra.
(click)

La paura ti scende dentro, si incunea in sacche nascoste, ematomi invisibili.
Tu non vuoi cedervi, ma lei ormai è lì e salta fuori ad ogni momento, quando vai in palestra, al supermercato, al centro commerciale, tutti bersagli che appaiono quello che sono: scoperti, quando il nemico è sconosciuto.

Passerà, con la promenade des Anglais ho cercato subito di riconciliarmi, nonostante le tracce di quello che è successo siano lì, troppo crudelmente visibili.

Passerà.

Ma da quel giorno mi sento ogni volta scossa nel constatare l’enormità della massa dei camion, soprattutto di quelli bianchi. Il loro essere grossi e pesanti mi sembra tanto, troppo esagerato. E ce n’è tantissimi sulle strade, non lo avevo mai notato.

Ma da quel giorno ogni volta che vedo delle persone correre nella stessa direzione mi si gela un po’ il sangue e cerco di capire da cosa scappino. Mi è successo anche poco fa, vedendo un servizio alla tv su una gara di corsa.

Ma da quel giorno ho capito che la mente umana è strana e ti fa dire e fare cose un po’ illogiche. Come rifiutare di primo acchito che si trattasse davvero di un attentato. “no, ma non è l’Isis, no Daesh non c’entra, ma sì sono sicuramente dei pazzi isolati”.
Questa frase l’ho sentita da persone che stimo e cui voglio in alcuni casi profondamente bene, nei momenti immediatamente successivi alle ultime tragedie, quando ancora non si sapeva niente di niente.

Un po’ lo capisco, credo sia lo stesso bisogno che ha fatto dire a Marco, nel mezzo dell’attentato, travolti dalla folla in preda al panico, “no, ma secondo me è solo qualcuno che si è spaventato per niente ed ha innescato una reazione a catena”.
Si l’ha detto e io questa cosa un po’ la capisco, ma mi ha fatto un po’ di paura, perché non voler riconoscere un pericolo da un lato aiuta a mantenere la razionalità, dall’altro ti espone maggiormente al rischio.
Riconoscere il nemico può fare la differenza tra vivere o morire, a volte.

Un’altra cosa che ho capito è che chi ti vuole bene ti cerca, ti chiama, si interessa a te, cerca di farti ridere, ti è vicino, ti accarezza il cuore come può.
Non ci sono scuse per chi non lo fa, semplicemente non ti ama. Amen.

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E comunque il giorno dopo il mare e il cielo erano ancora blu.


8 commenti

  • Wally Giambelli

    Grazie Antonella, per questa testimonianza di “vita ai tempi degli attentati assurdi”. Scrivi molto bene e hai fatto bene a scrivere…. Ti mando una carezzina al cuore.

  • Nino

    Bellissimo Anto! Hai un grande talento dentro di te: oltre alla fotografia scrivi splendidamente! Brava.

  • maurizio

    Anto, hai messo tutto quello che ci voleva per rendere il tuo racconto unico, interessante, mai banale. E hai fatto la considerazione giusta: i segni rimangono dentro anche dopo che sono passati i bleus. Cerca di curarli, fatti aiutare. Perchè le escoriazioni di cui parli possono lavorarti dall’interno e crearti dei problemi seri. Un grande abbraccio.

  • anto

    ecco mi piacerebbe tanto fosse vero ma è una di quelle cose in cui mi sono sempre sentita inadeguata, forse proprio perché avrei tanto voluto esserne capace. Grazie Nino!

  • anto

    Grazie Maurizio! terrò presente il tuo consiglio ma credo che ci voglia solo un po’ di tempo. Finché sono queste si può imparare ad accettarle le propie cicatrici.