Nicolas Boyer
Art,  Exhibitions,  Photography

24 vedute senza monte Fuji di Nicolas Boyer

Nicolas Boyer è un fotografo francese specializzato in reportages nei quali offre la sua visione spesso stravolta e distopica dei cliché impregnati di esotismo in cui l’occidente congela luoghi come l’India, l’Iran e il Giappone. Nella sua mostra in corso presso il Musée des Arts Asiatiques di Nizza sono presentate le sue 24 vedute senza Monte Fuji che fanno da contrappasso alla contemporanea mostra di Hokusai.
Gli scatti fanno parte del suo lavoro Giri Giri, pubblicato nel 2021 per Les Editions de Juillet, che raccoglie un centinaio di scatti giapponesi.

La nascita di un cliché

Alla fine del periodo Edo (1603-1868) e dopo due secoli di politica isolazionista, il Giappone si apre al mondo e accoglie i primi fotografi occidentali. Arrivati a partire dalla fine degli anni 1860 questi contribuiscono alla costruzione di una rappresentazione visiva e mentale del paese. 
Mentre il Giappone entra in un periodo di modernizzazione con l’epoca Meiji (1868-1912), questi si interessano soprattutto alla fotografia turistica realizzando paesaggi e scene di genere tradizionali.
Samurai d’operetta, pescatrici di perle, vere o finte cortigiane restituiscono così una visione esotica del Giappone conforme all’immagine fantastica che ne avevano gli Occidentali. Queste immagini incontrano allora un vivo successo presso i visitatori stranieri e la loro diffusione contribuisce all’accrescersi alla fine del XIX secolo della passione degli occidentali per il Giappone. 

24 vedute senza Monte Fuji

Con la sua serie 24 vues sans Mont Fuji Nicolas Boyer parte proprio da questi archetipi che, lungo i decenni, si sono radicati nell’inconscio collettivo occidentale. Vi aggiunge tuttavia l’approccio giapponese dell’ukiyo-e, nel suo modo di focalizzarsi sugli istanti della vita quotidiana.
Gioca con i cliché che si hanno sul Giappone e li stravolge per mostrare la sua visione di questo paese. Utilizzando il paesaggio urbano come se fosse una tela di fondo teatrale, cancella la frontiera tra reportage e messa in scena e ci consegna delle immagini-racconto del Giappone di oggi.

©Nicolas Boyer
©Nicolas Boyer

Immagini prese sul momento

Boyer scatta le sue fotografie rapidamente, sul posto. La maggior parte di esse sono prese in situazioni di reportage, senza alcuna interazione con la persona fotografata e le poche messe in scena sono state fatte in due o tre minuti, cercando di dialogare con l’aiuto di segni o disegni.
Contrariamente a quanto suggerisce l’immagine, l’artificio è quasi assente: le scene più burlesche sono spesso le più spontanee. 

©Nicolas Boyer
©Nicolas Boyer

Nicolas Boyer fotografo

“Ho perso l’occhio sinistro in un incidente quando ero bambino e da allora ho sempre avuto la sensazione che il mio campo visivo ridotto fosse come bloccato in una cornice, un po’ come il mirino di una macchina fotografica dice il fotografo francese Nicolas Boyer. Questo probabilmente spiega la mia attrazione per l’immagine; e il fatto di non dover chiudere un occhio per scattare mi fa risparmiare tre decimi di secondo sui miei colleghi – il che mi permette di catturare il famoso momento decisivo di Cartier-Bresson!”.

Dopo una parentesi relativamente corta nei primi anni 2000, Nicolas è tornato al fotogiornalismo nel 2016 provenendo da un lungo periodo come direttore artistico in campo pubblicitario.
Una quindicina d’anni che hanno formato la sua cultura visiva. Lavorando in India, Iran e poi in Giappone ha poi raffinato il suo stile: scatta con una full frame e una focale fissa di 35 mm. Il lavoro di post-produzione che fa in seguito è poi abbastanza importante. Le immagini che ne escono hanno una definizione tagliente, un cromatismo acceso e una resa molto pittorica.
La dissonanza delle sue immagini nasce dai suoi soggetti e continua nella forma che l’artista sceglie di dare loro.

Nicolas Boyer e il Giappone

Per tre mesi prima di partire per il Giappone, Nicolas Boyer ha letto i diari di viaggio di Nicolas Bouvier, la meticolosa indagine di Ruth Benedict sui codici sociali e le riflessioni di Junichirô Tanizaki su luci e ombre. Si è immerso nella storia della casa imperiale, delle mafie, dell’erotismo, del buddismo, dell’arte. Ha assorbito decine di reportage fotografici e filmati. È con tutte queste immagini in mente che nel 2018 si è recato per la prima volta in Giappone. Ha poi intrapreso un itinerario turistico, da Tokyo a Nagasaki, passando per la maggior parte delle città principali. È tornato l’anno successivo, questa volta avvicinandosi a zone meno conosciute, come l’isola di Sado o il nord di Tohoku.

Una selezione delle 24 vedute

©Nicolas Boyer
Kyoto
©Nicolas Boyer

In Giappone i turisti stranieri sono passati da 9 milioni nel 2012 a 40 milioni nel 2019. L’80% sono originari della Cina. Questa ragazza ha noleggiato per la giornata un yukata (un kimono leggero) per poter “giocare a far la Giapponese” nei dintorni del quartiere tradizionale di Gion.

Tokyo
©Nicolas Boyer

La prima insegna al neon a Tokyo fu installata nel 1926 dalla Tokyo Pan Bakery a Shinjuku. Benché Junichirô Tanizaki, uno dei principali scrittori giapponesi, lamenti già a partire dagli anni 1930 una “intossicazione delle città giapponesi da illuminazione intensa abusiva”, queste insegne si moltiplicano negli anni 60. Nella foto siamo a Kabukichô. In questo quartiere si concentra una grande quantità di hostess bar, sale da gioco, karaoke e case chiuse. 

Shirakawa-go
©Nicolas Boyer

“Una sera d’autunno, sotto un cielo senza colore né suono, ci troviamo a commuoverci fino alle lacrime senza poterlo spiegare”. È attraverso questo esempio che il poeta giapponese Kamo no Chômei (1155-1216) cerca di spiegare il concetto di yûgen. Un concetto dell’estetica giapponese che suggerisce la bellezza misteriosa dell’ineffabile. Esso rivela la parte più profonda e sfuggente della realtà, al di là della moltitudine di oggetti che ci circonda e che velano in continuazione la nostra percezione.

Tokyo
©Nicolas Boyer

Il taishû engeki è una forma di teatro popolare spesso paragonata al music-hall e alla rivista. Queste rappresentazioni burlesche erano recitate nei templi a partire dal XIII secolo da attori itineranti. Unendo improvvisazione e parodia il taishû engeki cerca il contatto con il pubblico, la cui partecipazione è parte integrante dello spettacolo. Nella foto lo sfondo è quello della Japan Racing Association, il principale centro di scommesse ippiche.

©Nicolas Boyer
Osaka
©Nicolas Boyer

L’uso del flauto shakuhachi così come il viso nascosto di questo musicista ricordano i komusô. Questi monaci mendicanti della scuola Fuke del buddismo zen praticavano l’elemosina suonando questo flauto in bambù e interpretando dei pezzi durante la loro pratica meditativa chiamata suizen o zen del respiro. Portavano un cesto di paglia sulla testa per significare l’assenza di ego. Questi personaggi si ritrovano spesso nelle immagini dell’ukiyo-e.

©Nicolas Boyer
Hashima
©Nicolas Boyer

Seguendo la moda del dark tourism, che si dirige verso destinazioni segnate dalla violenza o da catastrofi numerosi viaggiatori si recano oggi sull’isola di Hashima. Sito principale di estrazione del carbone dal 1890 al 1974 le famiglie dei minatori vi erano alloggiate in condizioni di vita particolarmente dure. L’acqua corrente vi è arrivata solo nel 1957, i tifoni vi si abbattevano ogni anno distruggendo le costruzioni. Soprannominata Gunkan-jima (isola-nave da guerra) per la sua forma, all’inizio degli anni 60 è un simbolo di segregazione, con la più forte densità di popolazione al mondo.

©Nicolas Boyer
Beppu
©Nicolas Boyer

Gli yakuza (membri del crimine organizzato giapponese) si qualificano con il termine gokudô, la via dell’estremo. Nel loro immaginario i valori eroici che sono la rettitudine e la nobiltà sono ricalcati su quelli del bushidô, la via del guerriero. Il senso del dovere verso il capo li spinge a volte a praticare il yubitsume (tecnica di autoablazione del mignolo) come riparazione in caso di sbaglio o mancanza al loro dovere.

©Nicolas Boyer
Tokyo
©Nicolas Boyer

Questa immagine rappresenta una doppia soppressione. Quella di un tatuaggio di yakuza, sostituito da un enigmatico rettangolo nero, e quella sociale, per sfuggire al clan al quale apparteneva e ai creditori.
Questo fenomeno si è accentuato con la crisi degli anni 90 estendendosi a persone di ogni età e condizione. Questi jôhatsusha (evaporati) decidono, individualmente o in famiglia di abbandonare tutto, alloggio, lavoro, status, relazioni, senza lasciare traccia, per condurre una vita clandestina ai margini della società.

©Nicolas Boyer
Osaka
©Nicolas Boyer

In epoca Edo (1603-1868) la prostituzione, benché controllata, era autorizzata nei quartieri ad essa riservati, come il celebre Yoshiwara a Edo. Tutte le categorie sociali si trovavano qui una accanto all’altra: commercianti, artigiani, samurai, artisti. La prostituzione fu in seguito oggetto di molte regolamentazioni ma diventò illegale solo nel 1956. Le case chiuse si sono però ricostituite sotto diverse forme attorno ai mestieri del “commercio dell’acqua”: saune, bagni turchi, soaplands. Un commercio che è stato stimato attorno ai 20 miliardi di euro nel 2018.

©Nicolas Boyer
©Nicolas Boyer
©Nicolas Boyer
©Nicolas Boyer