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Henjam – Le opere pittoriche (1994-2017)

Metà acronimo, metà slang inglese. Anche nel nome che hanno scelto questi due artisti non smentiscono la loro anima versatile e predisposta alla collazione di molteplici estetiche e differenti tecniche.
Henjam, Hic Et Nunc Jam, questo significa questa parola dal suono così esotico: una marmellata immanente, una poltiglia semantica che ha senso solo nell’attimo e nel luogo in cui si manifesta. 

Henjam sono due artisti dalle caratteristiche differenti ma capaci di stimolarsi a vicenda per creare opere dalla bellezza e dalla grandiosità stupefacente, spesso di grande impatto emotivo e sempre fortemente significative. Questa fusione di individualità e di intenti fa di loro una realtà davvero singolare, rara nel campo dell’arte, dove tanta importanza ha in genere l’accento posto sul personalismo di colui che appone la propria firma all’opera.
Henjam è individuo e assieme gruppo, realtà che si vuole aperta a tutto ciò che riesce in qualche modo a farne parte. 

Qui  trovate il loro sito, la loro storia e loro opere. La collaborazione tra Alberto Festi e Matteo Tonelli inizia nel 1994 e tocca varie modalità espressive, spaziando dalla scultura alla pittura, dagli interventi in spazi pubblici e privati alla rielaborazione plastica di forme note che acquistano sotto il loro sguardo e le loro mani un senso tutto nuovo.
Nella sezione Gallery del loro sito si possono trovare tutte quelle che sono uscite dalla loro vena creativa incredibilmente ricca.
Parte delle loro prime opere ruota attorno allo studio dell’oggetto come feticcio, ma già la loro prima collaborazione segna le linee guida che negli anni a venire contraddistingueranno le grandi opere pittoriche, quelle su juta.

All’origine c’è la Madre (1994), Questa grande tela di 270 x 270 cm inaugura la collaborazione tra i due artisti, che qui si firmano ancora come ®distribuzione. La ripetizione è il motivo alla base di quest’opera che è composta da 24 dipinti cuciti su una base di juta, diversi per tecnica e realizzazione, ma raffiguranti tutti lo stesso soggetto. Si tratta di un arnese di uso comune nel lavoro agricolo, dalla forma semplice e stilizzabile, costruito con un materiale primitivo, non lavorato; sono infatti dei semplici rami di legno incrociati a formare una sorta di maniglia da impugnare con uno scopo ben preciso.
“Mangheneti” in dialetto trentino, piccoli “mangani” che hanno la significativa forma della croce a stigmatizzare sin dall’inizio uno dei temi che diventerà tra più ricorrenti e semanticamente pregnanti nell’opera di Henjam: il feticcio per eccellenza della spiritualità che si fa tangibile.

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Emblematica, oltre che la forma, è anche la funzione di questo attrezzo che serve a tendere i fili di ferro nei filari delle vigne, ma anche i fili spinati che fungono da recinzione nei campi coltivati in campagna. E la tensione sembra davvero correre in quest’opera da un riquadro all’altro, nel ripetersi di questa forma eloquente che mima al tempo stesso quella della negazione, del rifiuto, del divieto d’accesso e quella della moltiplicazione.

Moltiplicazione per 24, perché tanti sono i tasselli di questo puzzle che non è affatto necessario ricostruire, dato che ogni dipinto costituisce un’opera a sé, e che diventa corale solo nel momento in cui la juta si fa trama fisica e narrativa fungendo da collante alla serie di immagini.

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Henjam torna alla pittura nel 2003 con le grandi opere su juta. La juta rappresenta un ritorno alle origini sia per il richiamo alla Madre, sia per la qualità stessa della materia, non raffinata e per certi versi primordiale come il suo colore che riporta a quello della nuda terra.
L’origine appare anche nei temi che vi sono sviluppati: minimali, privi di qualunque sovrastruttura significante, essi rappresentano lo sguardo di Henjam che si posa su un mondo ancora incontaminato da qualsiasi giudizio, un mondo in cui costruzioni ancora vergini dispiegano il loro vuoto che è quasi un’attesa.
Si tratta di grandi opere (dai 250 ai 200 cm x 140 cm) dal cromatismo essenziale in cui grandi campiture di toni neutri vanno a creare elementi architettonici dalle linee quasi irreali nella loro immaterialità. Poche sono le ombre in questi interni immaginari, praticamente assenti le linee curve, là dove una luce meridiana tutto disegna seguendo la retta dei suoi raggi.

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photo credits: ©Paolo Pisetta

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E’ il passaggio il tema essenziale che affiora nitido dalle opere di questa serie, un passaggio che però si manifesta sempre nel suo non realizzarsi: finestre di cui si intravede appena l’apertura, scale sospese tra piani che restano oltre il nostro campo visivo, porte che portano ad altre porte in una mise en abîme significativamente ricorsiva e soprattutto quella recinzione che anziché chiudere il passaggio si apre su un vuoto denso come la trama della juta su cui è disegnato, un vuoto circondato dalla preziosità dell’oro che ne resta inesorabilmente al di fuori.

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Le opere della serie Limes segnano il ritorno alla pittura di Henjam nel 2017. E’ ancora la juta che torna a fare da schermo tutt’altro che neutro a delle visioni che si definiscono appunto “immagini di confine”.
I soggetti  di queste opere non possono prescindere dal supporto utilizzato, materia grezza, fortemente corporea su cui il colore si stende leggerissimo, spirituale e quasi immateriale.
Il Confine qui è concepito più come linea da attraversare che come separazione e divisione tra due mondi distinti. Quelli rappresentati non sono infatti dei limiti che definiscono ma delle frontiere che lasciano passare e fanno conversare tra loro mondi apparentemente inconciliabili.
Se si dovesse trovare una patria elettiva per queste opere visionarie essa sarebbe senz’altro Despina, la città che Calvino disegnò al confine tra due deserti e che appare sotto forma di cammello a chi viene dal mare e come nave a chi viene dal deserto.
Come a Despina anche nelle opere di questa serie ciò che affiora è il desiderio. Desiderio soprattutto di completezza, di fusione dell’inconciliabile, di unione di corpo e di spirito.
La simbologia è evidente in Limes Opera Iª dove una cattedrale monocroma ed eterea fa da sfondo e si intreccia con un campo da gioco, in cui in palio non vi è nulla di spirituale.

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La carnalità esce più prepotente ancora in Limes Opera IIIª dove delle carni da macello espongono la loro cruda corporeità attraverso una rete da cantiere. Questa membrana si abbassa ma lo spettatore ne resta al di fuori, vicino abbastanza per avvertirne gli effluvi sanguigni, ma estraneo ad essi.

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Il cantiere, simbolo dell’azione tanto cara a Henjam, torna anche in Limes Opera IVª, dove la struttura di un edificio industriale in costruzione si erge in forma di cimitero costellato di croci, di fronte e quasi in affronto alla vita che lì accanto sembra osservare senza ancora poterlo davvero fare.

 

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La spiritualità nella sua forma materiale dell’effigie religiosa riappare infine nella “Madonna del Gelato” (Limes Opera IIª ) in cui il confine tra l’evanescenza di ciò che si vuole ultraterreno si scontra fin quasi a fondersi con uno dei simboli più intensi del godimento sensoriale: il dolce zuccherino di un gelato, la freschezza che svanisce sciogliendosi sul palato.

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Gli ultimi due dipinti in ordine temporale di Henjam costituiscono due opere a sé.

Oceano: qui la scelta del supporto si fa estrema. Henjam interpreta la massima espressione della bellezza naturale su un rifiuto artificiale. L’idea è quella di rappresentare il mare su un supporto  che spesso ne è contenuto.
Il fatto che si tratti di una tela cerata che in genere è utilizzata per il trasporto su strada sfiora solo accidentalmente temi ambientalistici. Non c’è giudizio, Henjam registra, rielabora e crea.
Quello che esce letteralmente da questa superficie difficile e al tempo stesso fortemente significativa è una massa in movimento, un volume tridimensionale che prende forma e vita quanto più ce ne si allontana per mettere a fuoco l’opera nel suo insieme. La trama della base allora perde la sua ruvidità filettata per rivelare quasi involontariamente la sua trasparenza di fondo, esattamente come fa l’acqua che cercando di riflettere il cielo non può fare a meno di lasciar misurare la sua profondità.

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Varco
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Ancora juta per quest’opera che arriva quasi all’iperrealismo nella raffigurazione di una tromba delle scale vista dall’alto. Il soggetto, realizzato con l’intenzione specifica di immortalare un ricordo altrui, si vuole infatti più vero e più perfetto della stessa realtà, quasi a riprodurre quello che non può esistere che fuori dal tempo.
E’ la finzione di una finzione, un quadro al quadrato, un ricordo ricordato.
E’ un’apertura su una quarta dimensione, la presenza immanente di qualcosa che non c’è.

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