Architecture,  Art

Atlas – Esposizione alla Torre della Fondazione Prada a Milano


La Torre della Fondazione Prada è stata aperta al pubblico nell’aprile scorso: 60 metri di cemento, la sua architettura è già di per sé una realizzazione straordinaria, dalla varietà spaziale talmente ampia da far porre al visitatore più di una domanda sull’orientamento e la disposizione degl spazi, che sono così articolati da poco corrispondere alle forme di una costruzione che dall’esterno appare di una regolarità e semplicità ineccepibili.



Sei piani della torre sono dedicati alla mostra “Atlas”, che rende fruibili le opere 
della Collezione Prada che comprende artisti come Carla Accardi e Jeff Koons, Walter De Maria, Mona Hatoum ed Edward Kienholz and Nancy Reddin Kienholz, Michael Heizer e Pino Pascali, William N. Copley e Damien Hirst, John Baldessarri e Carsten Holler. Negli altri tre si trovano il ristorante, i servizi e i bar, tutti spazi che a loro volta sono stati allestiti e decorati in modo da amalgamarsi con le sale espositive.



La prima di queste si trova al secondo piano. Qui si è accolti dai Tulips di Jeff Koons (1995-2004), tulipani giganti in acciaio dipinto. Una struttura incredibilmente leggera, nonostante il volume, forse proprio per  le linee in espansione, per quell’aspetto di oggetti in cui è stata insufflata dell’aria, e anche per quei colori accesi che assimilano l’opera a un enorme gioco per bambini.

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Salendo alla sala 2, si trova l’installazione Bel Air Trilogy (2000-2001) di Walter De Maria: tre Chevrolet Bel Air del 1955 con tre barre d’acciaio a sezione rispettivamente circolare, quadrata e triangolare, che trapassano longitudinalmente le vetture. Penetrate senza essere deformate in alcun modo, le macchine perdono la loro funzione, ma non la loro bellezza, mentre l’osservatore accusa il colpo, come se fosse a sua volta trafitto.

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La sala 3 ospita alcune delle opere che più mi sono piaciute tra tutte quelle esposte. Si tratta dell’installazione Remains of the Days (2016) e di Pin Carpet (1995), entrambi di Mona Hatoum.
Nella prima i resti combusti di una serie di mobili disposti come se fossero nei loro ambienti, sembrano fissarsi in un istante eterno di consunzione. Una fine rete metallica ricorda quella che doveva esserne la forma, mentre dei frammenti carbonizzati sfuggono dalle maglie.

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La seconda imita in tutto e per tutto le sembianze di un morbido tappeto, ma quelli che sembrano a prima vista soffici crini si rivelano essere in realtà spilli in acciaio. Il mimetismo della materia è qui perfettamente realizzato, come anche il fulcro semantico che parla di piacere, dolore e della loro dissimulazione.

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L’ampia sala 4 ospita opere di Pino Pascali: Pelo (1968) e Meridiana (1968). L’utilizzo di un materiale insolito come il peluche conferisce alle opere un aspetto ironico che contrasta con le geometrie di quelle appese alle pareti e posate al suolo.

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La successiva sala espositiva è due piani più sopra. Qui troviamo opere di William N. Coopley e l’installazioneWaiting for Inspiration di Damien Hirst: dei grandi cubi trasparenti ricreano ambienti in cui muoiono continuamente delle mosche. L’ossessione per la morte di questo artista arriva qui alla rappresentazione della sua perpetua attualizzazione.

La sala 6 ci introduce innanzitutto in un corridoio buio, in cui è possibile camminare solo seguendo (fidandosene) un corrimano che procede con un percorso tortuoso. E’ il Gantembein Corridor (2000) di Carsten Holler, che ci introduce alla Upside Down Mushroom Room (2000), sempre di Carsten Holler. Una foresta di Amanite Muscarie a testa in giù ci immerge in un’atmosfera fiabesca e allucinatoria, da cui si fa fatica a voler uscire.

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Un’esposizione da vedere e rivedere, per me senz’altro, visto che non avevo a disposizione tutto il tempo necessario per approfondire gli altri spazi della Fondazione Prada e le esposizioni temporanee. Anche il Ristorante e le toilettes sono notevoli e il bar sulla terrazza non era accessibile.

Questa della Torre è in ogni caso un’esperienza da farsi, per i lavori esposti ma anche per il connubio perfetto tra architettura e arti visive, per come gli spazi riescono a crearsi in sé e per sé e attorno alle opere e per come le opere vivono nei volumi che si elevano verso l’alto e respirano davanti alle grandi vetrate che danno su Milano.