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Alberto Giacometti – Le réel merveilleux – Retrospettiva al Grimaldi Forum di Monaco

Dal 3 luglio e fino al 29 agosto è possibile visitare presso il Grimaldi Forum di Monaco la mostra dedicata ad Alberto Gaicometti “Le réel merveilleux”. Grazie all’eccezionale prestito di 230 opere da parte della Fondazione Giacometti, il Grimaldi Forum presenta una delle più grandi retrospettive mai realizzate su questo grande artista del XX secolo. Il suo percorso è tracciato a partire dai primi saggi, quando, quattordicenne plasmava la testa del fratello o ritraeva la madre, fino ad arrivare al celebre “Homme qui marche”.

Il percorso che il visitatore è invitato a fare attraverso le sale segue un ordine a grandi linee cronologico per seguire l’evoluzione che ha portato l’artista a sviluppare la sua poetica sempre più orientata verso figure leggere, al limite dell’ inconsistenza ma allo stesso tempo fortemente radicate nella materia.
La riscoperta delle sue opere è accompagnata dagli incontri celebri di cui è costellata la sua vita, ma anche da numerose citazioni dell’artista che in ogni tappa del suo cammino ci illustra la sua visione dell’arte.
La sua è una tensione continua, un desiderio di superare se stesso attraverso l’arte.

“Sono convinto di fare ciò che non ho ancora mai fatto e che renderà superato quello che ho fatto come scultore fino a ieri sera o a stamattina”.

Una tensione la sua che si riflette nella sua necessità di realismo e al tempo stesso attrazione verso l’immaginario, che si riflette nel suo bisogno costante di essere sorpreso dalle cose del mondo.

“Nel 1914 feci il primo busto dal vero. Fu mio fratello a mettersi in posa. All’inizio provai un piacere estremo ed ebbi l’impressione che tutto sarebbe venuto molto facilmente, che sarei stato in grado di fare più o meno quello che vedevo. Cinquant’anni dopo non ci sono ancora riuscito”. 

È il paradosso della percezione a guidare la sua inchiesta. Nelle opere del periodo parigino degli anni ’20, in cui subisce la tentazione del cubismo e dell’astrazione, e fino alla metà degli anni ’30 lavora senza modello, sulla base della sua immaginazione. È in modo del tutto naturale che si avvicina dunque al movimento surrealista, esperienza che gli permette di esplorare in profondità la propria mente.


Di questo periodo sono la “Femme qui marche”  e “l’Objet invisibile”, titolo dato all’opera da André Breton. Fu proprio il riconoscere un’eccessiva stilizzazione nelle parti anatomiche di quest’opera a spingere l’artista a tornare a scolpire dal vero.

“So che mi è del tutto impossibile modellare, dipingere o disegnare una testa come la vedo, eppure è l’unica cosa che cerco di fare”

A partire dal 1935 Giacometti si concentra in modo quasi ossessivo nel riprodurre teste, soggetto che gli permette di reinventarsi al di fuori del surrealismo. Le sue teste fanno rivivere una tradizione filosofica classica che da Aristotele a Hegel la mette in valore come centro del pensiero.

L’interesse di Giacometti per l’arte e la civiltà egizia risale agli anni 20, ma dagli anni 50 si concentra sui ritratti del Fayum, dipinti che risalgono al periodo romano egiziano che, deposti sulle mummie, ricordano ai vivi il volto dei morti. La frontalità di questi ritratti con il volto che sia taglia su uno sfondo neutro ha ispirato i “quadri neri” del 1950.

Giacometti sembra scolpire i volti nello spessore della pittura.

“Prima vedevo il mondo esterno attraverso l’arte del passato e poi mano a mano cominciai a vederlo senza quello schermo e il noto diventò ignoto, l’ignoto assoluto. Così venne la meraviglia e allo stesso tempo l’impossibilità di rappresentarlo”.

Nel primo dopoguerra Giacometti colloca le sue figure in spazi naturali o artificiali delimitati. Le figure femminili si allungano come alberi o colonne. Giacometti guarda con ammirazione le cose minime del quotidiano, sempre pronto a meravigliarsi.

“Per me la scultura non è un bell’oggetto, ma un mezzo per provare a capire un po’ meglio ciò che vedo, capire un po’ meglio ciò che mi attrae e mi stupisce”.

Nel 1957 Jean Genet scrive: “In questo studio un uomo muore lentamente, si consuma, e davanti ai nostri occhi si trasforma in dee”.
Non si tratta solo di silouhette lunghe e snelle ispirate all’antico Egitto, alcune sue dee sono carnose e attingono alla statuaria africana, altre sono chiaramente ispirate alla moglie Annette.
È in occasione del periodo di intensa creazione dovuto alla preparazione della sua mostra individuale a New York nel 1948 che il suo studio si riempie di grandi figure, soprattutto femminili che inaugurano una nuova rappresentazione del corpo umano, dimagrito e allungato. La superficie della materia si fa più espressiva e i piedi massicci radicano la scultura al suolo.

“Bisognerebbe riuscire a cogliere in una scultura sia la testa che il corpo e la terra su cui poggia, e nello stesso tempo si avrebbe lo spazio e la possibilità di metterci dentro tutto ciò che si vuole”

Nel 1963, parlando dell’assottigliamento delle sue figure l’artista spiega come questa preoccupazione di leggerezza avesse un’origine molto pragmatica e nascesse dalla constatazione di quanto un corpo abbandonato pesi effettivamente molto di più di un corpo che si muove o sta in piedi. La relatività del peso assume dunque una valenza ontologica e la leggerezza è ricercata come liberazione da un peso che non è solo fisico.

La prima versione dell’”Homme qui marche” risale al 1947. Nel 1961 rinuncia a tutti gli elementi aneddotici e crea una figura a misura umana, piegata in avanti che sembra camminare per il mondo senza sosta, diventando sinonimo di attraversamento dell’esistenza.